Del prendersi cura di sé
Bentornat* a piccolezze, la newsletter piccola anzi piccolissima.
Così piccola che nell’ultimo mese è proprio sparita.
A mia discolpa posso dire che ho fatto una settimana di ferie, la prima dopo essere tornata al lavoro ad aprile.
Ho fatto un sacco di nuotate, tante ma brevi, tante ma moderate, perché i miei muscoli non se lo possono più permettere. Un tempo arrivavo alla fine della diga, in quel punto con l’acqua blu trasparentissima che già mi sembrava mare aperto, dove la riva era lontana, la balneazione vietata, e potevo credere di essere davvero una ribelle in mezzo al nulla. Era un pezzo di mare interamente dedicato a quei pochi eletti che bracciata dopo bracciata avevano la resistenza e la pazienza per arrivarci, un francobollo d’acqua da cui non si sentivano più gli schiamazzi dei bambini e delle rispettive madri. Ricordo che mi bullavo del mio non fare sport per tutto l’anno e del mio essere comunque in splendida forma, sorpassando con strafottenza gli altri bagnanti.
Ora invece dopo la terza boa mi giro e torno indietro, pavida, col fiatone, terrorizzata dal non avere più le forze per farcela, e quando esco dall’acqua sento le gambe pesanti come colonne di travertino e barcollo un po’.
Ora che nuotare il più al largo possibile non è più l’obiettivo delle mie nuotate, nuoto parecchio sott’acqua, perché in quel mondo sommerso fatto di pescetti e pulviscolo posso per un attimo provare il lusso di essere la me stessa di sempre, senza malattie, senza handicap, senza preoccupazioni. Come se invece di essere un essere umano avessi le branchie. Quando la pancia arriva a toccare il fondo sabbioso allora vuol dire che va tutto bene.
Quello che sta succedendo nella mia vita in questo periodo, e che è inevitabile che succeda, è che dopo mesi dalla diagnosi sto piano piano facendo i conti con la realtà e sto prendendo le misure. C’è stata una prima fase in cui ho evitato il mondo fuori perché da malata il confronto (= l’incontro) con le persone sane era davvero insopportabile, e poi gradualmente ho ripreso a fare delle cose che facevano parte della mia vita “di prima”, cercando di sentirmi sempre più “normale” nonostante i disagi, a volte intermittenti e a volte costanti. Ho scoperto che parlare mentre cammino per esempio non è il mio forte, e che cammino veloce - chi mi conosce bene lo sa - perché così è più facile rimanere in equilibrio (come in bici, dicono, ma io non so andare in bici).
Mi piacerebbe non parlare mai di malattie (anche perché avrei anche altre cose da dire!), ma la mia vita, come quella di tanti altri, è anche la mia malattia, così come la vita di X è anche il suo rapporto con Y, come se la malattia fosse un po’ una sorta di simpatica compagna che ti prende sottobraccio e che ti costringe a fare la strada insieme. Non vedo perché non dovrei parlarne. La realtà delle cose è che parlare di malattie è brutto e triste, ma anche che nel mondo dei malati ci sono tantissime ricchezze da esplorare, e sarà anche retorico dirlo - ma me ne frego dell’essere edgy -, ma ho capito che dove c’è un ostacolo (ed è un ostacolo di merda, parliamoci chiaro) c’è anche un’opportunità. Tutto quello che mi viene tolto in qualche modo mi torna indietro sotto un’altra forma, no?
Le visite mediche, le terapie, i controlli, gli esami del sangue e tutte quelle cose che vorrei molto poter rimuovere perché mi ricordano ogni giorno che non faccio più parte della categoria “persone sane”, mi hanno insegnato delle cose.
Prima cosa: prendermi cura di me, perché letteralmente, quando sei malato tutto quello che gira intorno al mondo della medicina è la tua cura, e questa dimensione della cura, che tu lo voglia o no, prende il sopravvento su tutto perché è la priorità assoluta (perché parliamoci chiaro, il motto “live fast die young” è romanticissimo, ma se lo trasformi in “live fast rimani paralizzato young” è un po’ meno appealing, no?)
Seconda cosa: smettiamola con questa cosa del trascurarsi dicendo “sì questa visita la farò ma ora sai ho troppe riunioni troppi impegni mica posso assentarmi”, un po’ perché ci si sente troppo fighi per poter rallentare e un po’ perché in fondo si pensa di poter rimandare all’infinito il momento di dedicarsi a se stessi. È lo stesso meccanismo di autosabotaggio per cui il sogno nel cassetto rimane nel cassetto fino alla pensione (per noi nati negli anni ’80 la pensione non esiste, lo so) e poi muori e alla fine non sei mai riuscito a realizzarlo. Il momento giusto per prendersi cura di sé non arriva mai, e quando hai la sensazione che sia arrivato il momento tipicamente è troppo tardi (eheh, che simpa la vita!). Prendersi cura di sé, anche per le persone sane, deve essere una priorità, perché altrimenti significa che non ti stai mettendo al centro della tua vita. E una vita in cui tu non sei al centro di tutto, beh, sappiamo che non va a finire bene.
Terza cosa: l’essere sani è un’illusione, in fondo. Da un giorno all’altro scopri di non esserlo più, ma non sai qual è stato il giorno esatto in cui hai smesso di esserlo. Magari è stata quella sera in cui ti sentivi un po’ così, magari invece era quando davanti al libro di filosofia la tua testa si svuotava come se non riuscissi a mettere a fuoco i concetti, oppure era quella volta in cui guidando non riuscivi a seguire perfettamente la linea bianca della carreggiata, chi può dirlo. Il 3 giugno 2002 eri sano? E il 18 settembre 2009? Eri sano e davi per scontato di esserlo, o eri malato e non sapevi di esserlo. Se non sai di essere malato forse in fondo non lo sei davvero, o lo sei a tutti gli effetti anche se non sai di esserlo?
PS: giuro che volevo davvero parlare di cose belle ma è andata così.
Provo a mettere una toppa e farmi perdonare:
Ho visto “In the mood for love”, ma non nella versione fighissima che è uscita ora nuovamente al cinema, ma nella sua versione originale bella sgranata. Mi è piaciuto molto. Che colori, ma soprattutto, che vestiti! Il povero Fabio si è sorbito di continuo i miei “oddio che bello questo shantung”, “ma che bello questo vestito a righe, a me starebbe malissimo”, “e questo trasparente? Pazzesco!” e vari.
Ho visto anche “Diaz”, che è dal 2012 che volevo vedere ma la violenza mi fa impressione (inutile che vi dica che è molto utile ascoltare “Limoni”, il podcast di Internazionale sul G8, vero? Ormai l’hanno ascoltato anche i muri - e bene così!). Invece ho resistito, e ne è valsa la pena, anche se di fronte a tanto orrore non puoi fare altro che sentirti impotente e chiederti come tutto ciò sia potuto accadere davvero, a 150 km da casa tua, nel tuo paese, in tempi di pace.
Mi sono iscritta a una scuola di scrittura creativa e mentre scrivevo questa newsletter mi sono ricordata che avevo appunto una lezione di scrittura e ciao, me la sono persa.
Una canzone:
Arriva presto un nuovo piccolezze più allegro, giuro!
Alice